18 October 2012

Democrazia e partecipazione nella crisi del sistema político


Riccardo Terzi, Segretario nazionale Spi-Cgil


La ricerca che viene qui presentata e discussa nasce da una precisa e urgente domanda politica: come rispondere alla crisi della democrazia. Io cercherò, con questa introduzione, di entrare direttamente nel vivo di questo nodo politico, non per forzare il senso e la portata del lavoro di ricerca, ma per metterlo alla prova, per verificarlo, per esplorare le potenzialità che esso ci può dischiudere.

Il lavoro che abbiamo svolto, con l’Ires Toscana e con l’Università di Firenze, è stato pensato, fin dall’inizio, come l’occasione per riaprire tutta la discussione sul futuro della nostra democrazia. E abbiamo scelto come campo di ricerca la Toscana, perché qui vediamo le tracce non ancora spente di una forte vitalità democratica, e perché soprattutto si è tentata una nuova sperimentazione legislativa, a sostegno di una democrazia partecipata, che sia capace di ricostruire una relazione feconda tra cittadini e istituzioni. Sta esattamente qui il punto in cui si sta consumando la crisi del nostro sistema politico, con tutti gli esiti traumatici che ne possono conseguire. La Toscana non è certo un’isola felice, e si trova anch’essa nel mezzo di una crisi globale che trascende le responsabilità dei poteri locali. Ma non è senza rilievo il fatto di cogliere la drammaticità di questa crisi e di cercare nuove possibili soluzioni.
Che di crisi si tratta, profonda e pervasiva, non c’è ormai quasi nessuno che lo possa negare. I dati di fatto sono di una evidenza assoluta: la crescita impetuosa dell’astensionismo elettorale, il discredito dei partiti, l’esplosione violenta dell’anti-politica, la lunga trafila degli episodi di corruzione, l’immagine ormai imperante di una “casta”, chiusa nella difesa arrogante dei suoi privilegi. C’è una vera e propria precipitazione della crisi, e non regge più l’idea che si tratti solo di episodi isolati, di responsabilità singole, essendo chiaro che è l’intero sistema politico – istituzionale ad essere messo in discussione. Per questo, dobbiamo evitare, io credo, di mettere in un unico sacco le diverse manifestazioni di protesta e di contestazione, bollandole con il marchio dell’antipolitica e del populismo. Non bisogna confondere le cause con gli effetti, e quello che si chiama genericamente “anti-politica” è sì un segno allarmante, l’indizio di una mutazione dello spirito pubblico che può provocare esiti del tutto distruttivi, ma tutto ciò non è che il riflesso di una situazione non più sostenibile.

Se ci limitiamo a dire anti-politica, diamo per scontata l’esistenza di un campo politico, perfettibile, come sempre, ma reale e funzionante, mentre è proprio questo presupposto che si sta dissolvendo. Sta nella politica stessa il cuore della crisi, nei suoi meccanismi, nel grande vuoto che essa ha prodotto, vuoto di idee, di progetti, di visione del futuro. È questa la tendenza generale, ormai da molti anni, il che non esclude l’esistenza di sforzi generosi per uscire da questo pantano. Ma resta il fatto che è il pantano ad aver vinto.

Per questo possiamo dire, analizzando freddamente i dati della realtà, che siamo entrati in una fase di crisi acuta del sistema. Il problema che è aperto, per tutti, con una urgenza assoluta, è quello di rendere visibile una nuova prospettiva. Di questo vorremmo parlare. Mentre la “pars destruens”, la denuncia di tutto ciò che non funziona, è un esercizio anche troppo facile, e c’è in proposito un’infinita produzione giornalistica, restano invece ancora nell’ombra i progetti di ricostruzione, le idee positive a cui affidare il nostro futuro.

Si apre qui un grande spartiacque, che ha al centro proprio il tema della democrazia: se la via di uscita dalla crisi richieda una qualche limitazione del metodo democratico, un tenere sotto controllo i suoi effetti di turbolenza e di instabilità, o se all’inverso l’operazione da compiere sia quella di una espansione coerente della democrazia, di un allargamento del suo campo di azione. Questa mi sembra essere l’alternativa decisiva che ci sta di fronte. Il vero scontro non è tra politica e anti-politica, ma tra sviluppo o limitazione della democrazia, tra la democrazia come risorsa o come impaccio.

Per cogliere l’esatta portata di questa dinamica, occorre scavare nella profondità dei processi reali, oltre la superficie, oltre le retoriche ufficiali, oltre l’immagine di una democrazia ormai vincente e dispiegata. L’attacco alla democrazia viene condotto per vie traverse, indirette, con un’azione molecolare che non agisce sui principi, ma sui meccanismi concreti, sui criteri di efficienza, sugli equilibri istituzionali. Il metro di misura con cui valutare tutto ciò mi sembra essere abbastanza semplice, in quanto si tratta di verificare il grado di approssimazione a quello che è il cuore dell’idea democratica: il diritto di tutti, senza esclusioni, a partecipare alla decisione politica, e l’estensione illimitata di questo metodo a tutti campi, senza aree protette, senza territori riservati solo agli addetti ai lavori. Tutti e tutto: la democrazia non è altro che questo processo di universalizzazione.

Se usiamo questo metro, che è l’unico davvero conforme all’idea democratica, allora risultano del tutto evidenti le strozzature, le limitazioni, e anche gli arretramenti che in questi anni si sono prodotti. Sono all’opera diverse forze che puntano a tenere la democrazia sotto tutela, a circoscriverne il campo d’azione, in nome di una qualche autorità superiore, in nome di valori e di principi che non sono negoziabili. Potremmo in questo caso usare l’espressione abusata dei “poteri forti”, proprio perché si tratta di poteri che non ammettono di poter essere messi in discussione dal processo democratico.

È nota la tesi per cui la democrazia, essendo per sua natura relativista, non può trovare in se stessa il suo fondamento, ed ha quindi bisogno di un’autorità esterna. Ed è questa tesi, dichiarata o sottintesa, che anima tutte le correnti conservatrici. Questo processo di restaurazione si snoda lungo tre diverse traiettorie, che tendono spesso a confluire, ad integrarsi l’una nell’altra.

C’è anzitutto la potenza ideologica delle religioni, che tendono ad affermarsi come l’unico possibile fondamento della comunità, come il deposito delle risorse morali che la tengono al riparo dalla disgregazione. La religione accetta la democrazia solo come un prodotto secondario, subordinato, mentre c’è un complesso di verità e di valori che non possono essere messi in discussione. Che si tratti del cristianesimo o dell’Islam, non ci sono, sotto questo profilo, molte differenze, se non di maggiore o minore flessibilità. Parlo qui dell’istituzione e non del sentimento religioso, che agisce spesso come una forza animatrice dei movimenti democratici. Si tratta di un’antica questione, mai del tutto risolta, ma che ha saputo trovare, in alcuni passaggi della nostra storia, un equilibrio accettabile, tenendo i due piani, quello religioso e quello politico, in un rapporto di distinzione e di reciproca autonomia. E tuttavia è evidente il riemergere aggressivo di movimenti integralisti, anche nel cuore dell’Europa.

Più  rilevante e più attuale è il secondo movimento, il quale consiste nell’idea e nella pratica tecnocratica, in nome di una presunta oggettività delle leggi economiche, per cui c’è un’unica soluzione, un'unica agenda possibile, e la democrazia si deve totalmente arrendere di fronte a questa necessità. Se Platone pensava ai filosofi, ai sapienti, ora è il momento dei tecnici, degli esperti, degli interpreti autorizzati del pensiero economico dominante.

È qui evidente come la democrazia venga radicalmente depotenziata, perché la dialettica politica è consentita solo all’interno di un perimetro rigidamente circoscritto, e se si azzarda a valicarlo, allora scatta l’intervento sanzionatorio delle superiori autorità economiche, a cui è stato delegato tutto il potere di regolazione. Insomma, c’è ormai una totale divaricazione tra le sedi della rappresentanza e le sedi del potere. Alla prima è lasciato solo il gioco del conflitto mediatico, dell’apparenza, dell’intrattenimento, delle parole dette in libertà, mentre i veri centri di potere stanno ormai altrove, fuori dal circuito democratico, e quindi irresponsabili, in quanto non devono rispondere che a se stessi e alla pressione dei mercati.

È assai indicativo il modo in cui, in un variegato arco di forze politiche, si pone il tema della cosiddetta “agenda Monti”, non come una delle possibili opzioni, ma come l’unica ancora di salvezza per l’Italia, come una scelta obbligata, imposta da una superiore necessità. Ciò vuol dire, per tutti coloro che sostengono questa tesi, che le prossime elezioni sono solo un rito superfluo, perché il nostro futuro è già scritto, e non ci sono alternative, non ci sono margini di scostamento da quell’unica necessaria traiettoria. Le domande sull’efficacia di questa politica e sulla sua equità, il dubbio che Monti non rappresenti la soluzione, ma piuttosto l’avvitamento della crisi in una spirale recessiva, tutto ciò viene escluso a priori, come l’intromissione degli eretici nel sacro recinto dell’ortodossia liberista. Nel momento in cui ogni alternativa viene esclusa, e tutto il discorso politico sembra parlare lo stesso linguaggio, è la democrazia che deperisce, perché essa ha bisogno di chiare alternative programmatiche. Se la sinistra si lascia ingabbiare in questa trappola, non può che finire nel repertorio degli enti inutili.

La terza tendenza è quella plebiscitaria, che si affida  alla figura carismatica del leader, nel quale si condensa lo spirito della nazione. Nella crisi delle culture politiche tradizionali, da più parti si è puntato su questo modello, sulla personalizzazione, su una competizione giocata tutta non sulle idee, ma sulla delega fiduciaria ad un capo, che diviene così il regolatore esclusivo di tutta la vita politica e istituzionale. Della democrazia sopravvive solo la parvenza, ma è chiaro che il risultato è una forma di potere arbitrario e autoritario. Se guardiamo bene, questa non è stata, nella nostra storia politica recente, un’eccezione, ma una tendenza generale, perché tutta l’infinita discussione sulle riforme istituzionali è stata guidata esclusivamente dall’assillo della governabilità, del rafforzamento della figura del premier e dei suoi poteri, dall’idea, in fondo, che il male dell’Italia stia in un eccesso di democrazia, e che sul piatto della bilancia debba finalmente prevalere il peso del principio di autorità.

Su tutti questi fronti la democrazia è messa in discussione. E queste diverse traiettorie tendono spesso ad incrociarsi, con una commistione di integralismo religioso, di dominio tecnocratico, e di populismo plebiscitario, dando vita così’ ad un fortissimo blocco di potere. Ora, questo blocco si sta sfaldando, per le sue interne contraddizioni e per l’esplosione di una acutissima questione morale. E quindi si possono aprire oggi nuovi varchi, si possono preparare nuove prospettive. Ma ciò richiede una sterzata molto netta e decisa rispetto alle tendenze fin qui prevalenti. Richiede un programma coerente e radicale di democratizzazione del sistema.

Democratizzazione è la parola giusta, perché essa indica che la democrazia è un processo, ed è un combattimento, è il lavoro incessante e mai concluso con il quale tutte le strutture di potere, in tutti i campi, e in qualsiasi regime politico, vengono sottoposte ad un severo vaglio critico, attivando tutti i possibili meccanismi di controllo, di partecipazione dal basso, di socializzazione delle decisioni. È questo un lavoro immenso, proprio perché, come già si è chiarito, le sedi della decisone si sono spostate e si sono automatizzate, dando vita a ristrettissime cerchie oligarchiche. E la globalizzazione, lasciata a se stessa, agisce come un fortissimo impulso verso una definitiva destrutturazione dei sistemi democratici.

Nella nostra storia politica passata, sono stati essenzialmente i grandi partiti di massa l’anello di congiunzione tra società civile e istituzioni, il canale in cui prende forma e si organizza la partecipazione democratica. Oggi non è più così, perché tutto il sistema dei partiti ha subito un’involuzione, e appare non come uno strumento al servizio dei cittadini, ma come una barriera, come una struttura chiusa, ripiegata su se stessa. Tralascio qui il tema, cruciale e assai arduo, di come si possa riqualificare e riformare il ruolo dei partiti politici. Ma è comunque chiaro che essi non possono più pretendere di essere l’esclusivo canale della partecipazione, e che la democrazia può oggi vivere solo se c’è una pluralità di soggetti, di momenti associativi, di strumenti, di sedi di confronto, senza che nessuno possa arrogarsi una sorta di monopolio della rappresentanza.

Ecco che allora si apre il campo vastissimo, e ancora largamente inesplorato, di una nuova democrazia partecipativa, che offra a tutti, cittadini singoli o associati, una possibilità concreta ed effettiva di accedere, secondo determinate procedure, al processo decisionale. La legge regionale della Toscana, è, in questa direzione, un passo importante. E noi chiediamo al governo regionale di procedere con coraggio e con coerenza lungo la linea che è stata intrapresa, così da costruire un nuovo modello di governo che possa essere un punto di riferimento per tutto il paese.

Il grande tema, da inscrivere dentro un processo di democratizzazione, è l’uso del territorio, le grandi scelte di pianificazione e di infrastrutturazione, oggi affidate troppo spesso ad una oscura trattativa tra poteri politici ed economici, e questa mancanza di trasparenza e di pubblicità apre il varco ai numerosi episodi di corruzione. È possibile democratizzare solo se c’è, contestualmente, un lavoro sistematico di informazione, di documentazione, per consegnare il potere di scelta a cittadini consapevoli, e per evitare di restare prigionieri di ondate emotive, localistiche, protestatarie, come è spesso accaduto. Per questo serve una procedura istituzionalizzata, servono regole, serve una democrazia organizzata, e non lasciata alla spontaneità. Come dice A. Sen, la scelta giusta è solo il punto di arrivo di un processo in cui tutti i diversi punti di vista sono riconosciuti e legittimati, a condizione di accettare il libero confronto e di essere aperti alle possibili mediazioni. In questo senso, la democrazia è il metodo che consente una decisione ragionata e ponderata.

Questo sviluppo di una democrazia partecipata, aperta a tutti i cittadini e a tutti i soggetti organizzati, pone anche al sindacato la necessità di un riposizionamento, perché non basta affermare il nostro ruolo negoziale, ma occorre promuovere un sistema allargato e plurale di partecipazione. Il sindacato è un soggetto rappresentativo di primaria importanza, e la sua “confederalità”, il suo essere sindacato generale, è una garanzia contro il rischio sempre incombente delle chiusure corporative. Ma, il sindacato è solo uno dei soggetti, che entra in un processo democratico più complesso, confrontandosi con altri attori, sociali e istituzionali. Questo, in fondo, è il senso del principio di sussidiarietà introdotto nella nostra Costituzione: l’interesse pubblico non è solo nelle mani dello Stato, ma c’è uno spazio per la libera iniziativa dei soggetti sociali. E il sindacato, in questo quadro, può allargare il suo campo di intervento e divenire un protagonista attivo, esercitando in modo del tutto trasparente la sua funzione di rappresentanza.
C’è un ultimo punto, quello più ostico, a cui non possiamo sfuggire. Quando parliamo di democratizzazione, in che misura riusciamo a coinvolgere in questo processo anche la sfera dell’economia e il sistema delle imprese? È solo il territorio il luogo possibile della partecipazione, e l’impresa non può che essere governata da un potere unilaterale, discrezionale, autoritario? La tendenza, come è’ noto, è verso un irrigidimento del sistema di impresa, verso una progressiva riduzione degli spazi di autonomia per i lavoratori, e verso un generale ridimensionamento dei loro diritti. Ma tutto ciò non è entrato nell’agenda politica. C’è solo il sindacato, e spesso solo la Cgil, a porsi il problema. Ma fin dove regge una democrazia partecipata, se viene escluso il momento del lavoro, che continua ad essere il luogo fondamentale dell’identità delle persone?

Impresa e territorio vanno visti insieme, nella loro relazione. E la battaglia per la democratizzazione non può agire a senso unico, ma deve investire tutta intera l’esperienza e la vita delle persone. Altrimenti, si approfondisce il senso di estraneità e di abbandono che attraversa gran parte del mondo del lavoro, lasciato a se stesso, senza visibilità politica, senza che nessuno si misuri con le nuove condizioni di sfruttamento e di alienazione. La nostra idea è che i diritti civili e i diritti sociali devono essere parte di un unico disegno, e che non c’è nessun avanzamento significativo se non sappiamo unificare questi due piani. Questo è oggi il nostro maggiore punto di fragilità.

Io mi limito, in questa sede, a indicare la necessità di questo lavoro di ricostruzione di una visione democratica unitaria, che lega insieme cittadinanza e lavoro, impresa e territorio, economia e politica. Su questo nodo continueremo a lavorare, mettendo insieme le competenze, le esperienze, in una visione unitaria e confederale dei compiti del sindacato. La ricerca, dunque, è per noi l’inizio di un impegno, e questo convegno, con il contributo autorevole delle persone che prenderanno la parola, ci può dare un’idea più chiara e consapevole del cammino da percorrere, per una democrazia che torni ad avere un significato nella vita concreta delle persone.

Firenze, 12 ottobre 2012